Il 21 ottobre 2020 è la giornata internazionale per la consapevolezza della ricostruzione mammaria, BRA Day, appuntamento tradizionalmente dedicato a informare e sensibilizzare le donne sulla possibilità di ricostruire il seno dopo un tumore. Quest’anno, però, le limitazioni imposte dal Covid-19 cambiano notevolmente la fisionomia della giornata, sostituendo in molti casi gli incontri tra pazienti, le conferenze e le presentazioni delle associazioni di volontariato con appuntamenti online e, perché no, riflessioni più personali.
La mia? Mi occupo di ricostruzione mammaria da oltre 35 anni, un tempo abbastanza lungo per aver visto cambiare molte cose e averle viste continuamente migliorare. Dalla precocità della diagnosi alla cura, con l’individuazione di un percorso sempre più “comodo”, in cui la paziente è seguita a passo a passo e da ogni punto di vista: tutto, un anno dopo l’altro, è stato formulato per essere sempre più dalla parte delle donne. A iniziare dagli interventi oncologici, che un tempo erano veramente demolitivi e col tempo sono diventati ultra – conservativi, senza che questo approccio modificasse in alcun modo la prognosi. Questa “rivoluzione” – promossa in primis dal prof. Umberto Veronesi che per tutti noi resta un impareggiabile maestro – è stata affiancata da screening più precisi e precoci, da cure sempre più efficaci e da modalità di accompagnamento più attente, grazie al supporto di team di psicologi e reti di pazienti. In tutto questo, ovviamente, anche la chirurgia plastica ha fatto passi da giganti. Progressivamente, l’uso ai fini ricostruttivi dei tessuti autologhi ha lasciato spazio ad altre metodiche, meno impegnative per la donna in termini di recupero. A protesi ed espansori si è affiancato poi il lipofilling, l’autotrapianto di grasso che permette di rimodellare in modo molto poco invasivo le quadrantectomie, cioè gli esiti dei tumori più piccoli, e di migliorare da un punto di vista estetico buona parte delle altre ricostruzioni.
Ricco di cellule staminali adulte, il grasso che viene prelevato dall’addome o dai fianchi della paziente e poi trasferito nella mammella operata permette di rendere il seno “nuovo” più naturale e di forma più simile rispetto all’altro. Significativi anche i numeri. Nella struttura in cui opero, l’Humanitas Research Hospital di Rozzano (MI), nel 2018 sono state eseguite 308 ricostruzioni mammarie, diventate 338 nel 2019. Più pazienti operate non vuol dire però meno attenzione al singolo caso e al singolo individuo. Ogni paziente è un caso a sé e in quanto tale viene considerato. E questo non solo per quanto riguarda la patologia o la corporatura. Ogni donna ha una storia e un vissuto suo proprio, che cerchiamo di conoscere, capire e rispettare, con l’obiettivo di dare ad ognuna il miglior risultato possibile. Una buona ricostruzione (sempre ricordando che non si tratta di un intervento estetico) aiuta la donna a superare anche psicologicamente la malattia, perché “cancellare” i segni dal corpo aiuta a sentirsi come prima: sane, come se niente fosse stato. In quanto chirurghi plastici non siamo in grado di migliorare la prognosi di chi ha avuto un tumore, ma cerchiamo il più possibile di migliorare la qualità della vita, la sicurezza personale e il buonumore. Ed è veramente una bellissima esperienza, oggi come 35 anni fa.